Articoli. In questo numero alleghiamo un articolo di un nostro neo socio – attento ai fenomeni geopolitici - su un evento particolarmente interessante e che fa meditare.
Rebuilding the Arab Region
Frammentazione, è questo il termine maggiormente adoperato dall’ex Primo Ministro libico Mahmoud Gebril alla convention “Arab Geopolitics after the Caliphate” del Nato Foundation Defense College tenutasi presso la LUISS di Roma il 9 ottobre, per descrivere l’attuale situazione geopolitica e sociale del Maghreb a seguito delle primavere arabe. Le turbolenze in atto hanno profondamente modellato le relazioni diplomatiche regionali, lasciando una serie di guerre interne, tensioni intersettarie e aspre rivalità interstatali. La conseguente frammentazione ha favorito la corruzione, la criminalità organizzata, il traffico illegale e il terrorismo.
Nel procedere col suo intervento, Gebril evidenzia la necessità di non sottovalutare le crescenti radicalizzazioni nonostante la recente sconfitta del Califfato. L’ideologia islamista rimane salda e trova terreno fertile nel Sahel, regione che di recente subisce un crescente fenomeno di radicalizzazione tra le fila dei più giovani. Crescita demografica e insita disoccupazione fungono da catalizzatore per i giovani intrappolati nell’indigenza.
I governi di Mauritania, Mali, Niger e Ciad, principali stati interessati dal fenomeno sperimentano, dal canto loro, la perdurante difficoltà di contrastare la rapida e crescente espansione delle efferatezze jihadiste e al radicamento dei traffici criminali in Sahel, e faticano ad assicurare piena operatività alle forze militari regolari. Le misure di eccezione adottate dai governi saheliani, restrittive di diritti e libertà individuali, incidono su fragili equilibri socio-economici e sulle condizioni di vita delle comunità locali,, alimentando un conflitto asimmetrico in cui le comunità locali pagano il prezzo più alto e alimentano fenomeni di migrazione di massa destabilizzanti per i paesi del Mediterraneo.
Il fine ultimo dell’Unione Africana e della Lega Araba si concentra sull’obiettivo di investire e finanziare progetti economici volti a creare occupazione stabile, disinnescare la radicalizzazione galoppante e ridurre la pressione dei flussi migratori illegali. Nello specifico, Gebril suggerisce di accelerare la via intrapresa mirata a una sostanziale trasformazione dei paesi del Maghreb da economie di produzione ad economie di servizi di qualificato valore aggiunto. È una strategia di ampio respiro e di lenta realizzazione ma vincente: permetterebbe, di pari passo, il processo di laicizzazione e democratizzazione a lungo ricercato dai politici più lungimiranti della regione. Non dimentichiamo che la teocrazia di molti paesi arabi da sempre coinvolge la quasi totalità degli aspetti sociali ed economici della popolazione e impedisce l’affermazione di una consapevolezza, di una coscienza critica nazionale necessaria ad affrontare le ardue sfide che si propongono in un mondo sempre più globalizzato.
Il lucido pensiero di Gebril è stato ripreso e approfondito da Youssef Cherif, Deputy Director del Columbia Global Centers di Tunisi. Analista indipendente, Cherif riporta un quadro socioeconomico della Tunisia contraddistinto da luci ed ombre. Da un punto di vista istituzionale, la Tunisia post Primavera Araba si presenta all’osservatorio internazionale come uno Stato democratico, con libere elezioni e dotato di una nuova Costituzione contenente garanzie di libertà ed uguaglianza e princìpi di tutela delle tradizioni. D’altronde, non altrettanto rosea appare la situazione economica e sociale, caratterizzata da accesi contrasti, disoccupazione dilagante e uno stillicidio di giovani che abbracciano la causa Jihadista.
In un’economia basata sulla produzione agricola (16% del PIL) e un’industria focalizzata sulla produzione di abbigliamento, che non può contare sull’estrazione di derivati del greggio (a differenza di Algeria e Libia suoi stati confinanti) ecco che appare un quadro di stagnazione economica e di un futuro a tinte fosche. Se si aggiunge alle suddette criticità il crollo del turismo a seguito degli attentati di Susa del 2015, il miglioramento occupazionale giovanile appare di difficile risoluzione. Si spiega agevolmente, puntualizza Cherif, come molti tunisini siano disillusi e demoralizzati dalla situazione economica del paese e soccombano facilmente agli ammalianti richiami degli islamisti.
Le Nazioni Unite attestano un numero di foreign fighters tunisini compreso tra i 5000 e i 6000 giovani e questa nazionalità risulta essere il gruppo più numeroso fra i miliziani dell’Isis. Lo scarso senso di attaccamento e appartenenza allo stato tunisino e il marginale coinvolgimento dei giovani alla partecipazione alla vita democratica del paese (meno del 10% degli aventi diritto di voto under 30 ha esercitato tale facoltà alle ultime elezioni) saranno emergenze al centro del dibattito politico che il nuovo esecutivo non potrà esimersi dall’affrontare.
Federico Severoni
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